E X I T I M E
FontanaMIX in Manifattura uno spazio per le nuove musiche

28 settembre – 16 dicembre 2004
Manifattura delle Arti
Laboratori del Dipartimento di Musica e Spettacolo

via Azzo Gardino n. 65 – Bologna

una produzione:

Alma Mater Studiorum – Università di Bologna:
– Dipartimento di Musica e Spettacolo
– CIMES

Associazione FontanaMIX

in collaborazione con:

Provincia di Bologna – Assessorato alla Cultura

Bologna Festival

Fondazione Isabella Scelsi – Roma

Accademia Filarmonica di Bologna – Studio MELOS

Nel dare vita a FontanaMIX eravamo pienamente coscienti di creare uno spazio vivo per la nuova musica. Con EXITIME questo spazio diventa un luogo, un punto di riferimento concreto. In EXITIME s’intrecciano, uscendo in campo aperto, il fare e il conoscere: la fisica esperienza del suono e la lucida avventura del pensiero.

direzione artistica

Paolo Aralla
Atli Ingolfsson
Francesco La Licata

UNO SPAZIO NEL PENSIERO, NEL CUORE E NEL CORPO
UNO SPAZIO PER I GIOVANI E PER LA CITTÀ

Chi vuol fare bene l’amore sa che sono necessari competenza, tempo e dedizione, ed è pronto a consacrarli allo scopo. In fondo è così per tutto, ma ci non toglie che ci siano priorità. A parte le funzioni primarie della sopravvivenza – nutrizione, riposo, un riparo dalle intemperie, il sesso puramente procreativo – dopo l’amore il più ricercato tra i generi voluttuari (superflui solo in apparenza) è la musica: non esiste una società dove non se ne faccia, e dove essa non costituisca un piano più elevato rispetto alle faccende e alle noie quotidiane. Oltre a quello estetico la musica ha innumerevoli usi, ma in tutti – dalla ninna nanna al canto di lavoro all’educazione sentimentale alla danza – stabilisce col suo arcano potere un tempo acceso, verticale, che trascende la piattezza dell’esistere automatico. Ogni musica perciò in senso lato (laico) è sacra: cambiano nella storia e tra i popoli le sue forme e i suoi rituali, ma non ne muta la funzione catartica, come mostrano il sufi che nell’estasi del canto entra in comunione con Allah, la menade e la tarantolata che danzano invasate da Dioniso o dal morso del ragno, ma anche i ragazzi che trovano lo sballo in discoteca, e pure i compositori contemporanei che ancora oggi, in una società secolarizzata e in una realtà ampiamente spiegata dalla scienza, cercano l’inaudito.

Il rimpicciolimento del mondo indotto dai moderni mezzi di comunicazione educa tutti all’ascolto delle musiche etniche, un panorama multiforme ed esaltante. In tanto pluralismo è assurdo sacrificare proprio sé stessi. La musica contemporanea è felicemente cosmopolita, secondo un costume lontano che portava nel Quattrocento i polifonisti fiamminghi a colonizzare le corti italiane e nel ‘900 gli americani a studiare composizione a Parigi, ma al tempo stesso non è meno etnica delle altre: la sua comunità è composta per lo più di individui occidentali, colti, siamo noi. Trascurarla è trascurare la propria tradizione. Ancora prima di conoscerla, ci sono due ragioni per non credere che sia, come vuole la pigra voce diffusa, un’aberrazione rispetto all’epoca barocco-classico-romantica. Possibile che un intero secolo non abbia generato un buon compositore dopo Mahler e Puccini? Già la statistica dovrebbe insospettire. Possibile che i compositori, che dedicano la vita alla scrittura perché amano la musica, e quindi per forza la musica preesistente, rinneghino proprio ciò che amano?

La separazione della musica nuova dal grande pubblico è quasi secolare: ha circa la stessa età dell’atonalità. Oddio, rinunciare alle cadenze! Di fatto nella storia dell’umanità ne hanno fatto a meno miliardi di persone. Ma non è solo un fatto linguistico a determinare il distacco dell’ascoltatore medio dalla novità, quanto piuttosto il suo significato in termini di valori. Nel ‘900 gradualmente sono andati smantellandosi i principali sistemi ideologici – religiosi, sociopolitici, scientifici – che reggevano la visione del mondo occidentale, mentre parallelamente la musica metteva in crisi i suoi elementi convenzionali. Riservandosi pari dignità alla tradizione, che tutela i valori conservandoli e tramandandoli, e alla ricerca, che li rinnova attraverso la (ri)scoperta, i compositori contemporanei radicali non sono, nella loro rinuncia ai mezzi codificati e comuni, più esoterici e isolati del Bach dell’Arte della Fuga o del Beethoven degli ultimi quartetti, e rispetto ai difensori della memoria non hanno un senso meno pio della sacralità della conoscenza. Anche se il dibattito sull’argomento è ancora aperto, solo un ostruzionismo terminologico può negare che in qualche modo la musica esprima qualcosa. Non sono concetti, non sono oggetti; pazienza. Il punto è che oltre la tonalità, oltre qualsiasi sistema precostituito, il potere psicotropo della musica può non solo rimanere uguale, ma perfino intensificarsi. Ogni musica poi dà una rappresentazione sui generis del sistema culturale – filosofico, antropologico, sociologico, psicologico, economico – che la produce. Perciò un amante della musica che voglia da essa un’interpretazione attendibile della realtà – corrispondente a ciò che il mondo è oggi in Occidente, non a ciò che era ieri o altrove – deve consacrare competenza, tempo e dedizione a quella contemporanea. Che è anche uno strumento, politico, di lotta contro la mercificazione e banalizzazione industriale dell’ascolto, del pensiero: col suo essere critica offre argomenti all’emancipazione dai meccanismi costrittivi e omologanti (tv, pubblicità) della sempre endemica idiozia.

L’abitudine a una bombardante proposta di ascolti facili può convincere che la musica o fa effetto subito o mai più. Con quest’estetica da colpo di fulmine nessuno leggerebbe un libro e i musei sarebbero deserti. Lo sforzo invece premia, vale la pena compierlo. La musica contemporanea però non è solo un dovere culturale, ma pure una condotta che asseconda il principio del piacere. Tanto che anzi altri doveri può alleggerire: conosciuta, può essere ascoltata lavando i piatti. Così come soprattutto, goduta, è capace di provocare un turbamento che, insediandosi attraverso l’orecchio nel cervello, può da lì far sgorgare le lacrime, palpitare il petto, nonché occasionalmente mobilitare l’intero corpo. Vogliamo dire che la musica contemporanea scuote e sconvolge, non meno che Verdi, Chopin o Vasco Rossi e i Radiohead? Scriverla, suonarla, ascoltarla è un piacere intellettuale – puramente estetico, globalmente umanistico – e fisico, è un’emozione e una commozione, un entusiasmo che può perfino indurre permanenti trasformazioni psicospirituali.

Poiché si ama ciò che si conosce, è necessario stabilire condizioni adatte alla conoscenza. L’Italia purtroppo non vanta un’abitudine di buoni rapporti tra le istituzioni accademiche musicologiche, nell’Università, e quelle di formazione tecnica musicale, i Conservatori, ciò che ovviamente danneggia entrambe. Al fondo c’è un’altra separazione antica, le cui lacune solo lentamente vanno colmandosi. La cultura umanistica ha prescisso per secoli dal sapere musicale, perciò chi da noi non sappia chi è Dante è un ignorante, mentre può definirsi colto pur non sapendo chi è Monteverdi; viceversa i musicisti (orfani originariamente messi in Conservatorio per salvarli dalla miseria) sono stati esentati, al pari di artigiani e circensi, da una degna iniziazione culturale complessiva. Bologna, città universitaria per eccellenza e sede del primo Dams, ospita anche uno dei principali Conservatori della nazione; è quindi naturale che Exitime nasca qui, dalla collaborazione tra il Dipartimento Musica dell’Ateneo e il gruppo FontanaMIX, i cui componenti sono compositori e strumentisti da anni operanti sul territorio ad alto livello. La cooperazione corroborerà l’azione iniziata dal Dams trent’anni fa, integrando ancor più saldamente la musica nel sistema umanistico, e in particolare promuoverà l’unione tra il sapere musicale teorico (estetica, storia, filologia, analisi, critica) e quello pratico (composizione, esecuzione).

Sono due ali ugualmente indispensabili per il volo: le osservazioni musicologiche sono più illuminanti se intrinseche a una prassi, mentre a sua volta la tecnica trascende la mera materialità se si connette alla riflessione. La già effettiva doppia scolarità di tanti giovani, studenti sia universitari sia di Conservatorio, attesta che la cultura italiana è pronta: le istituzioni formative devono seguire. L’organismo che si vuol far volare è la musica nella società del presente, quindi elettivamente la musica contemporanea. Exitime dunque è uno spazio per concerti e insieme uno spazio didattico, dove la musica è coltivata in tutte le fasi, dall’ideazione alla realizzazione alla ricezione critica. Ed Exitime è uno spazio aperto in primo luogo ai giovani, che possono e devono approfittarne per sviluppare godendo una cultura libera e profonda.

* * *

Si conviene saggiamente, nelle rassegne di musica contemporanea, includere anche campioni di scrittura più antica: ciò agevola la fruizione – costretta altrimenti, esposta solo a novità, a uno sforzo eccessivo che va a detrimento dell’effettiva ricezione – ma soprattutto, quando le scelte sono oculate, istruttivamente fornisce un contesto adeguato a suoni che sennò, come fin troppo spesso accade, parrebbero gratuiti, privi di senso. Poiché il senso è relazione. La conoscenza della musica successiva d’altronde influenza la conoscenza di quella precedente, anzi modifica la musica stessa, al punto che Webern – per fare l’esempio di un autore emblematico che curiosamente non figura nel presente programma – non solo è recepito differentemente, ma è qualcosa di diverso, dal momento che sono passati il serialismo negli anni ’50 e la seguente reazione al serialismo. Se perciò la presenza in cartellone di musica già nota è funzionale come riferimento per la comprensione di quella nuova, questa a sua volta ridefinisce inesauribilmente quella passata, svelandone gli eventuali caratteri fecondi e anticipatori. Uno degli aspetti qualificanti della serie di concerti proposta da Exitime dunque è il confronto con grandi maestri riconosciuti del Novecento storico, come (in ordine cronologico per data di nascita) Debussy, Schönberg, Bartók, Stravinskij e Berg. Non meno proficuo risulta pure, ormai che il nuovo secolo e millennio è ampiamente inoltrato, il confronto con autori maggiori della generazione, largamente storicizzata, dei nati negli anni venti – Bruno Maderna, György Ligeti, Luciano Berio, Franco Donatoni – che hanno assunto posizioni di primo piano dopo il secondo dopoguerra. Giacinto Scelsi, Terry Riley e Salvatore Sciarrino fanno caso a sé: l’uno perché, pur nato nel 1905, ha vissuto come «mondano eremita» (Heinz-Klaus Metzger), distante dalle piazze della musica contemporanea, fino a tarda età, per esplodere poi clamorosamente dagli anni ’80; l’altro perché appartenente al movimento, in parte coesteso con la ricerca europea ma in parte anche indipendente, del minimalismo americano; l’ultimo infine per la precocità del suo esordio a fine anni ’60, che lo pone come un maestro anche rispetto a compositori oggi cinquantenni.

Vengono poi autori come Heinz Holliger, Wolfgang Rihm, Magnus Lindberg, Horatio Radulescu, Adriano Guarnieri e Gilberto Cappelli, che scrivono con autorevolezza e con una poetica riconoscibile da tempo, ma che in parte perché ancora attivi, in parte perché la ricezione critica necessita del dovuto tempo per assestarsi, è più opportuno assegnare al presente. Si giunge così a coloro che l’eredità di quel passato appena elencato, remoto o prossimo ma comunque tuttora vivissimo, vanno elaborando in modi inediti oggi: Francesco Carluccio, Gabriele Manca, Paolo Perezzani, Paolo Aralla, Atli Ingolfsson, Francesco La Licata, e dopo di loro i giovanissimi, tra i quali gli otto di area bolognese le cui partiture in prima esecuzione coronano degnamente il concerto finale. Il programma della manifestazione dunque si configura come un’eccellente lezione di storia della musica del ‘900, dalle radici nel secolo precedente fino ai frutti nell’oggi. Ma l’intenzione didattica non si limita al solo punto di vista storico: nella creazione musicale sussistono altre precedenze e relazioni, oltre a quella cronologico-culturale nel lungo periodo, che Exitime ha cura di illustrare con vividezza, mostrando concretamente in diretta tutte le varie fasi della produzione di una musica nuova (unico spazio precluso rimane la mente, il tavolo, del compositore durante l’atto creativo, ma si è cercato di aprire anche quello). Non è certo una prerogativa contemporanea la collaborazione tra compositore ed esecutore al fine di integrare nella scrittura solo il possibile e tutto il meglio di una prassi strumentale, che non è mai del tutto standardizzata bensì sempre in parte anche individualmente caratterizzata; Giacinto Scelsi era uso a siffatte collaborazioni, dove il confine tra la farina del sacco suo e di quello dell’amico strumentista non era nettamente precisabile, come per esempio nel caso del violoncellismo di Frances-Marie Uitti. Questo tipo di rapporto reciprocamente istruttivo infatti si fonda spesso su una ricerca pionieristica, compiuta da parte del musicista sulle possibilità del suo strumento: lo attesta per esempio la quantità di prime esecuzioni che affollano i concerti di Antonio Politano e Haesung Choe, specialisti rispettivamente di flauti dolci prototipi e di violino elettrico (volentieri in associazione col mezzo elettronico-informatico). Infine non si può immaginare che le scoperte dei virtuosi e le novità tecnico-interpretative concepite dei compositori possano diffondersi, entrando a far parte della pratica comune, senza un’azione didattica apposita: il seminario di Frances-Marie Uitti sulla scrittura per archi di Scelsi e il laboratorio dedicato alla musica da camera del ‘900 svolgono appunto in Exitime questo compito fondamentale.

Stefano Lombardi Vallauri

Arnold Schönberg

Il confronto con la figura di Arnold Schönberg – già giganteggiante per tutta la prima metà del secolo passato come un colosso severo ed ombroso, ma nella cui ombra hanno trovato riparo i seguaci più eminenti e diversi – non cessa di imporsi inevitabile. Sarà il caso di ricordare che Schönberg, dopo aver raccolto a pieno titolo l’eredità del tardo romanticismo e della scuola neotedesca da Mahler e Richard Strauss, ha avuto l’audacia di portare a compimento la dissoluzione del plurisecolare sistema tonale, e poi inesorabile ha inventato pure la dodecafonia? Che sue sono partiture epocali, per dire solo quelle che rappresentano l’apice dell’espressionismo musicale, come Erwartung e il Pierrot Lunaire? Che ha scritto una pietra miliare come il Manuale di armonia e vari altri titoli teorici, didattici e saggistici ineludibili? Che sono stati allievi suoi, per dire solo i massimi, Anton Webern e Alban Berg e poi John Cage? Che l’Adrian Leverkühn del Doktor Faustus di Thomas Mann è ispirato per la parte tecnica musicale a lui, e questo grazie alla consulenza magistrale di Theodor W. Adorno, il quale a sua volta gli ha dedicato la prima capitale metà della Filosofia della musica

moderna? Non si può neanche dire tutto. Oggi forse preme evidenziare nuovamente – su imbeccata del compositore dodecafonico siciliano Federico Incardona – soltanto un ultimo aspetto della personalità artistica di Schönberg: l’imitanda intransigenza etica, che al di là della legittimità di qualunque scelta stilistica ingiunge al compositore odierno la responsabilità di non rinnegare mai la «necessità interiore».

La produzione pianistica occupa nel corpus schönberghiano complessivo un posto di primo piano. Qui si sono compiuti passi fatidici: l’op. 11 è la prima interamente atonale, l’aforistica op. 19 porta la dissoluzione del sistema nella massima prossimità all’ammutolimento, l’op. 23 è la ripresa dopo anni di silenzio e l’inaugurazione del «metodo per comporre con dodici note», l’op. 25 è la prima basata su un’unica serie. Non bisogna però, per l’eterogenità di queste tecniche, sopravvalutare le dissomiglianze effettive all’ascolto, che sono piuttosto generate da altri fattori; nell’op. 25 per esempio salta all’orecchio l’adozione delle forme codificate della suite barocca molto più che una condotta diastematica qualitativamente alternativa all’atonalità. Se mai desta rispettosa perplessità il fatto che Schönberg abbia sentito il bisogno di plagiare forme del passato proprio nel momento in cui – nel Walzer dell’op. 23 (l’unico movimento infatti non titolato dalla nuda indicazione agogica) e nell’op. 25 – dava avvio alla dodecafonia. Ma le forme antiche sono comunque stravolte, talché la regressione è solo parziale, e anzi il ricorso a stilemi preesistenti, senza configurare già un neoclassicismo – poiché siamo ben lontani dal pastiche – conferisce uno spessore in più, una specie di terza dimensione di autocoscienza storica.

 

Arnold Schönberg

Integrale dell’opera pianistica

Mauro Castellano, pianoforte

 

 

Drei Klavierstücke, op. postuma (1894)

Andantino – Andantino grazioso – Presto

Drei Klavierstücke, op. 11 (1909)

Mässig – Mässige Achtel – Bewegt

Sechs kleine Klavierstücke, op. 19 (1911)

Leicht, zart – Langsam – Sehr langsame Viertel –

Rasch, aber leicht – Etwas rasch – Sehr langsam

Fünf Klavierstücke, op. 23 (1923)

Sehr langsam – Sehr rasch – Langsam – Schwungvoll – Walzer

Suite für Klavier, op. 25 (1923)

Präludium: Rasch – Gavotte: Etwas langsam, nicht hastig –

Musette: Rascher – Gavotte – Intermezzo –

Minuett: Moderato, Trio – Gigue: Rasch

Klavierstück, op. 33a (1929)

Mässig

Klavierstück, op. 33b (1932)

Mässig langsam

Antonio Politano, flauti dolci

Per il primo Novecento si può indicare in Edgar Varèse, in particolare col suo celebre brano per sole percussioni Ionisation, il promotore emblematico dell’estensione del campo dei suoni musicabili, attraverso l’appropriazione del rumore e di modi esecutivi anomali. Varèse fu anche profeta dell’avvento del suono sintetico, determinabile a piacimento fin dalle sue componenti fisiche elementari. Ma sebbene le ricerche sulle possibilità strumentali abbiano avuto un vero incontenibile rigoglio solo poi dopo la metà del secolo, ormai da tempo in quest’ambito è sempre più raro imbattersi in reali novità, mentre al contrario lo sviluppo della musica elettronica è, grazie al potenziamento dei mezzi informatici, seppur non troppo rapido, continuo. I flauti dolci di Antonio Politano – bassi contrabbassi subcontrabbassi: macchine abnormi – costituiscono rispetto a ciò una felice eccezione: sembra di assistere a fenomeni di quarant’anni fa, quando non c’era compositore che non scrivesse per David Tudor, Vinko Globokar o Severino Gazzelloni. Il violino di Haesung Choe, pure ricercatissimo, sollecita un’osservazione ulteriore, poiché nell’uso di strumenti elettrici o elettrificati (cosa diversa rispetto a quelli elettronici) la musica colta, rispetto al rock che li ha adottati subito e distintivamente, rimane piuttosto restia e tardiva.

 

 

Antonio Politano, flauti dolci

Haesung Choe, violino e violino elettrico

Studio MELOS, regia del suono

Heinz Holliger

Trema (1983) per violino

Paolo Perezzani
nuova opera per flauto Paetzold contrabbasso

Emanuele Pappalardo
nuova opera per flauto dolce, violino e nastro

Luciano Berio
Gesti (1966) per flauto dolce

Horatiu Radulescu
Dr. Kai Hong’s Diamond Mountain (2000) per violino amplificato

Nicola Evangelisti nuova opera
per flauto Paetzold sub-contrabbasso, live electronics e nastro

Luciano Berio
Sequenza VIII (1976) per violino

Gabriele Manca
nuova opera  per flauto dolce contralto e violino elettrico

FontanaMIX Ensemble - Farben Ensemble

Tenendo ferma la libera autodeterminazione tecnicoespressiva dei compositori (per cui nessuna scelta può considerarsi a priori inautentica) e critica dei musicologi (per cui nessuna descrizione storica può, se metodologicamente corretta, essere inficiata sulla base del particolare taglio interpretativo), si deve riconoscere che gli orientamenti a proposito di Stravinskij si sono nei decenni gradualmente raffreddati, o meglio desurriscaldati. Ma, a maggior ragione perché la ridimensionata figura del compositore russo non si staglia più sovrastante su tutte le altre, trova conferma la polarità Schönberg-Stravinskij individuata da Adorno negli anni ’40: essa conserva tuttora validità come schema deliberatamente estremistico (senza per questo in nulla diminuire l’importanza di altri compositori); essa soprattutto, opportunamente adattata, si rivela perfettamente attuale. Se è sempre stato difficile tratteggiare nel panorama della musica presente la costellazione delle stelle di prima grandezza, oggi per l’esplosione delle comunicazioni è probabilmente impossibile: ovunque nel mondo può esserci un compositore che conduce esperienze capitali rimanendo ignoto anche al critico più avveduto. Ma proprio in questo contesto disintegrato, dove la parola d’ordine è la molteplicità, l’alternativa Schönberg-Stravinskij, sommariamente tramutata nell’alternativa tra radicalismo e possibilismo stilistici, è più che mai provocante. I due concerti degli ensembles FontanaMIX e Farben dunque offrono un’occasione per verificare, con la cartina di tornasole del sovrano possibilista Stravinskij, le diverse reazioni a questa istigazione da parte di compositori europei e italiani tra i più importanti dell’ultimo periodo.

 

Lunedì 11 ottobre

FontanaMIX Ensemble

Thuridur Jonsdottir, flauti Giambattista Giocoli, clarinetti Valentino Corvino, violino Corrado Carnevali, viola Antonella Guasti, viola Nicola Baroni, violoncello Stefano Malferrari, pianoforte Nunzio Dicorato, percussione Francesco La Licata, direttore

Francesco Carluccio
Nouba dell’abbandono (2002)
per flauto, clarinetto in la, violino, viola, violoncello e pianoforte

Igor Stravinskij
Piano-Rag-Music (1919) per pianoforte

Michele dall’Ongaro
Quartetto n. 5 (2004) per quartetto d’archi

Igor Stravinskij
Elegia (1944)
per violino

Luca Belcastro
Nero (2004)
per violino, flauto, clarinetto basso, violoncello e pianoforte

Igor Stravinskij
Tango (1940) per pianoforte

Gilberto Cappelli
Blu oltremare (2000)
per flauti, clarinetti, violino, viola, violoncello, pianoforte e percussione

 

Lunedì 8 novembre

Farben Ensemble

Lavinia Guillari, flauti Marco Ignoti, clarinetto Riccardo Bellini, violino Marco Radaelli, violoncello Marco Lena, pianoforte

Wolfgang Rihm
Chiffre IV (1983/84)

Magnus Lindberg Quintetto dell’estate (1979)

Emanuele Casale
Composizione per 5 strumenti (1998)

Paolo Perezzani
Con slancio (1985)

Hanspeter Kyburz
Danse aveugle (1997)
Venerdì 26 novembre, ore16.00
Seminario

La musica per archi di Giacinto Scelsi

Frances-Marie Uitti

con la partecipazione del Quartetto FontanaMIX

Giacinto Scelsi La scrittura per archi

Per quanto, soprattutto fuori dall’Italia in Francia e in Germania, la musica di Giacinto Scelsi stia ricevendo in questi anni consensi sempre più ampi, ciò non toglie che ancora una larga parte degli addetti alla musica contemporanea non la conosca affatto; non è raro invece il caso di ascoltatori che, solitamente refrattari al secondo ‘900, per Scelsi facciano un’eccezione. Fin troppo spesso si dice – con uno spirito analitico approssimativo alimentato dalle stesse asserzioni del compositore – che Scelsi, come per esempio nei paradigmatici Quattro pezzi del 1959, compone «su una nota sola», ma ciò non è vero alla lettera nemmeno per un suo brano. Piuttosto è esatto affermare che la sua musica si svolge volentieri intorno a una nota sola (non un suono, bensì una nota, date le abbondanti ottavazioni), e con infinite note, perché anzi il glissando – procedimento tipico nella scrittura scelsiana – dalla scalarità discreta del sistema temperato introduce nel regno del continuo. A questo scopo gli strumenti ad arco risultano certo adattissimi e perciò il compositore li ha usati elettivamente, con prassi sue caratteristiche.

Scelsi – altra vox populi diffusa – era dedito alla sapienza orientale, e coerentemente dal punto di vista estetico affermava di non essere altro che un canale per la discesa nel sensibile della trascendenza, piuttosto che un creatore. Ma la sua musica, per quanto effettivamente anegoica – come impone un’ascesi che liberi dalla catena delle contingenze – è, seppur non sentimentale, potentemente espressiva. Alla fine di Natura

renovatur per esempio c’è un’irruzione del registro grave, si manifesta il Tremendo: l’espressione è quella di un io che, per quanto non egoico, immerso nel Tutto non può rimanere indifferente. Il pezzo (come pure il IV Quartetto per archi) si conclude enigmaticamente con un subitaneo decrescendo dinamico che svanisce verso l’acuto: il gesto, retoricamente antiintuitivo dopo tanta progressiva intensificazione, conferma che la catastrofe precedente non è un effetto ad uso bassamente emotivo, e simula forse l’attimo della sublimazione verso il trascendente, l’incielamento.

 

Giacinto Scelsi
La scrittura per archi

Frances-Marie Uitti, violoncello

FontanaMIX Ensemble Valentino Corvino, violino Antonella Guasti, violino Corrado Carnevali, viola Nicola Baroni, violoncello Nunzio Dicorato, percussione

Strumentisti del Laboratorio Scelsi

Francesco La Licata, direttore

Quartetto n. 3 (1963) per quartetto d’archi
I – avec une grande tendresse (dolcissimo)
II – l’appel de l’esprit: dualisme, ambivalence, conflit (drammatico)
III – l’âme se réveille… (con trasparenza)
IV – …et tombe de nouveau dans le pathos mais maintenant avec un pressentiment de la libération (con tristezza)
V – libération, catharsis

Ygghur (1965) per violoncello

Ko-Tha (1967)
I – dalle Tre danze di Shiva
per chitarra sola trattata come strumento a percussione

Riti: I funerali di Carlo Magno (1967)
“Marcia rituale” per violoncello e percussione

Natura renovatur (1967)
per undici archi

Exitime

L’intreccio, per Exitime indissolubile, tra passato e presente è evidente nei tre concerti, simili ad alberi genealogici, dedicati ai compositori residenti. Accanto a pezzi di Paolo Aralla, Atli Ingolfsson e Francesco La Licata si eseguono ogni volta brani di autori individuati da loro stessi come riferimenti poetici nel primo e secondo ‘900. Inoltre i giovani partecipanti al laboratorio sulla musica da camera suonano tre partiture diversamente rappresentative del secolo passato: tra numerosi critici, che identificano in Debussy il padre del Novecento musicale, Paul Griffiths riconosce in particolare nel Prélude à l’après-midi d’un faune, che pure uscì nel 1894, il primo esempio compiuto di emancipazione dal sistema modale maggiore-minore e di valorizzazione del timbro come parametro autonomo fondante il linguaggio; O King di Luciano Berio e In C di Terry Riley mostrano due facce opposte – una, per quanto spregiudicata, più tradizionalmente europea, l’altra (californiana) ormai del tutto affrancata – di ciò che quelle scoperte hanno poi generato.

Ma a qualificare lo spettacolo è il progetto speciale che lo precede. Nel laboratorio strumentale i giovani sono stati guidati dai membri dell’ensemble FontanaMIX e dai tre compositori ospiti, in modo da associare in un unico momento didattico la fase di concertazione e quella di analisi-scomposizione delle opere, e rendere davvero reciprocamente illuminanti i rapporti di discendenza tra i maestri consacrati e i discepoli contemporanei, secondo significative associazioni stabilite per affinità, ma pure oblique, eterogenee.

 

Lunedì 6

Marie-Luce Erard, mezzosoprano Maurizio Maiorana, voce Angelo Manzotti, sopranista Franco Venturini, pianoforte

Con la partecipazione di strumentisti del
“Laboratorio dedicato alla musica da camera del Novecento”

Francesco La Licata
Aria della Madre, da “L’Angelo e il Golem” (2000) versione per mezzosoprano e pianoforte

Alban Berg
Sonata, op.1 (1907/08) per pianoforte

Francesco La Licata
Cunto, da “L’Angelo e il Golem” (2000) versione per voce e pianoforte

Arnold Schönberg
Lied der Waldtaube, da “Gurrelieder”
(trascrizione del 1912 di Alban Berg) per mezzosoprano e pianoforte

Francesco La Licata
L’Angelo infelice, da “L’Angelo e il Golem” (2000) versione per sopranista e pianoforte

Luciano Berio
O King (1968)
per mezzosoprano e cinque strumenti

 

Martedì 7

Giambattista Giocoli, clarinetto Antonella Guasti, violino Nicola Baroni, violoncello

Con la partecipazione di strumentisti del
“Laboratorio dedicato alla musica da camera del Novecento”

Igor Stravinskij
Tre pezzi (1914) per clarinetto

Béla Bartók
Duetti (1931) per due violini

György Ligeti
Sonata per violoncello (1948/53)
I – DIALOGO
Adagio, rubato, cantabile
II – CAPRICCIO
Presto con slancio

Atli Ingolfsson
Due bagattelle (1997)
per clarinetto e strumenti in eco

Terry Riley
In C (1964) per ensemble

 

Giovedì 9

Thuridur Jonsdottir, flauto Stefano Malferrari, pianoforte

Studio MELOS, regia del suono

Con la partecipazione di strumentisti del
“Laboratorio dedicato alla musica da camera del Novecento”

Bruno Maderna
Musica su due dimensioni (1958) per flauto e nastro magnetico

Franco Donatoni
Françoise Variationen, n. 1-7 (1983) per pianoforte

Salvatore Sciarrino
D’un faune (1980) per flauto in sol e pianoforte

Paolo Aralla
Káros, versione per flauto in sol (2003)
per flauto in sol ed elaborazione elettronica dal vivo

Claude Debussy
Prélude à l’après-midi d’un faune (1894) versione da camera

SPAZIO/PRIME FontanaMIX Ensemble

Non dimenticando che uno scopo primario della didattica è preparare all’ingresso nell’attività professionale, Exitime si propone di iniziare gli studenti alle più urgenti esigenze della vita musicale effettiva, fuori dall’Università e dal Conservatorio. Non si è mancato perciò di presentare agli strumentisti tecniche necessarie alla costruzione di un repertorio contemporaneo completo, e in alcuni concerti si è pure integrata la prassi strumentale con gli ultimi ritrovati dell’innovazione tecnologica, in specie i mezzi del live electronics. Per questo inoltre Exitime ha commissionato a otto giovani compositori otto nuove opere – per un organico tipicamente pedagogico qual’è, poiché miniaturizza l’orchestra, il quintetto di flauto, clarinetto, violino, violoncello e pianoforte – fornendo la rara garanzia, non meno preziosa della possibilità di scrivere, di un’esecuzione di livello assoluto.

 

SPAZIO/PRIME
FontanaMIX Ensemble

Thuridur Jonsdottir, flauti
Giambattista Giocoli, clarinetti
Valentino Corvino, violino
Nicola Baroni, violoncello
Stefano Malferrari, pianoforte

Nuove opere di:

Andrea Agostini

Carlo Argelli

Oscar Bianchi

Armando Corridore

Thuridur Jonsdottir

Claudia Leardini

Gioacchino Palma

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